Lettura Nuovo Testamento – 20

“Tutti gratuitamente amati in Cristo Gesù”

Carissimi,
oggi dovremmo essere arrivati al capitolo settimo della Lettera ai Romani.
Dopo la narrazione degli Atti degli Apostoli, che si è conclusa con l’arrivo di Paolo a Roma, l’ordine canonico dei libri biblici ce ne offre la lettera scritta per tale comunità. A differenza delle altre lettere, quella «a tutti quelli che sono a Roma» (Rm 1,7) è scritta dall’Apostolo a una comunità non fondata da lui: Paolo infatti trova già dei credenti quando giunge nella capitale dell’Impero. Egli probabilmente la scrisse alcuni anni prima, negli anni 56/57, da Corinto, quando – esaurito il campo d’azione apostolica in Oriente – inizia a volgere il proprio interesse missionario verso l’Occidente, in particolare verso la Spagna (Rm 15,24.28). Con l’obiettivo di coinvolgere la comunità di Roma nel sostenere tale progetto, invia loro questa lettera, nella quale cerca di esporre il “proprio” vangelo, in particolare le implicanze relative al giudaismo. La comunità di Roma infatti plausibilmente doveva essere mista nella composizione dei suoi membri, provenienti in parte dal giudaismo e in parte dal paganesimo. L’Apostolo istituisce pertanto una prima lunga sezione della lettera (Rm 1-4) per spiegare ‒ alla luce della nuova fede in Cristo ‒ la sua elaborazione della “giustizia di Dio”, nucleo del pensiero religioso giudaico che descrive l’agire di Dio, ciò che Dio compie perché sia possibile la relazione con Lui, perché l’uomo possa essere “giusto” davanti a Lui, cioè in una buona relazione con il suo Dio. Egli enuncia la sua tesi in Rm 1,16-17 ‒ «Io infatti non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco. In esso infatti si rivela la giustizia di Dio, da fede a fede, come sta scritto: Il giusto per fede vivrà» ‒ che dipana attraverso diversi passaggi argomentativi. Una prima sezione (Rm 1,18-3,20) sembra in realtà incentrata su un tema antitetico, quello dell’“ira di Dio”, introdotta in Rm 1,18: «Infatti l’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia». Anche l’immagine dell’“ira di Dio” è tipicamente giudaica e rappresenta la reazione di Dio al male, da cui sempre prende le distanze. Purtroppo invece la condizione dell’uomo, sia del greco, cioè del pagano, sia del giudeo è drammatica perché, operando il male, si pone “sotto l’ira di Dio”, cioè distante da Lui, interrompe quella relazione che gli permette una vita buona e felice. Ma se per un giudeo era normale considerare peccatore un pagano e quindi pensare che la sua sorte fosse tragica, “sotto l’ira di Dio” appunto, non altrettanto poteva pensare se stesso in tale condizione: la Legge era infatti per lui un privilegio in qualche modo “protettivo” dall’ira di Dio. Eppure Paolo gradualmente smantella la presunzione giudaica di poter confidare nella Legge: innanzitutto mostra che Dio giudica tutti indistintamente in base alle opere, leggendo in profondità il cuore degli uomini (Rm 2,1-16) e poi a partire da Rm 2,17 esplicitamente si rivolge al Giudeo per mostrargli che la sua condizione di trasgressore della Legge lo pone esattamente nella medesima condizione del Greco! Il capitolo seguente inizia così con una domanda pertinente: «Che cosa dunque ha in più il Giudeo?» (Rm 3,1), cioè a quale vantaggio il giudeo può appellarsi davanti al giudizio di Dio, per non incorrere anch’egli nella Sua “ira”? E se l’Apostolo sembra concedere una certa «utilità» del suo status dal punto di vista della storia della salvezza, perché «a loro sono state affidate le parole di Dio» (Rm 3,2), altri vantaggi non seguono; anzi una lunga serie di citazioni bibliche (Rm 3,10-18) serve ad attestare la tragica conclusione: «in base alle opere della Legge nessun vivente sarà giustificato davanti a Dio» (Rm 3,20)! La lunga argomentazione ha gradualmente fatto scoprire al Giudeo di essere esattamente nella medesima condizione tragica del Greco: entrambi sono “sotto l’ira di Dio”, lontani da Lui, e così tragicamente lontani dalla salvezza!!
È solo a questo punto che Paolo riprende quanto aveva enunciato all’inizio relativamente alla giustizia di Dio e lo riformula in Rm 3,21-22: «Ora invece, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla Legge e dai Profeti: giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono». Alla tragica condizione di ogni uomo, Giudeo o Greco che sia, Dio risponde con l’assoluta sorprendente gratuità della Sua giustizia, manifestata nella vicenda di Gesù Cristo: partecipando della fede del Figlio, ogni uomo può accogliere la giustizia di Dio, cioè la possibilità di una relazione buona con Lui, che ci raggiunge in modo totalmente gratuito! E da sempre è così la “grammatica” dell’agire di Dio, come Paolo dimostra in Rm 4: attraverso un’argomentazione tipicamente giudaica che attinge alla Scrittura (in particolare a Gen 15,6 e Sl 32,1-2), ricorre alla vicenda di Abramo, anch’egli giustificato per la sua fede, posto cioè nella buona relazione con Dio perché di Lui e a Lui si è affidato, non perché avesse opere alle quali appellarsi!
Chiarito quindi che necessaria e gratuita, sia per i pagani che soprattutto per i giudei, è la partecipazione alla fede di Gesù per essere giustificati, perché così Dio opera la Sua giustizia, Paolo, a partire da Rm 5, volge l’attenzione alla vita del credente, a quale ricchezza comporti vivere nella fede di Gesù Cristo. Una sola sottolineatura della seconda sezione argomentativa che si concluderà in Rm 8,39: forse abbiamo notato un cambio di linguaggio… Paolo utilizza categorie nuove per descrivere l’identità del credente, immagini che tentano di esprimere la partecipazione alla vita del Figlio a cui il credente ha accesso. In particolare in Rm 6 l’Apostolo conia addirittura dei neologismi, un lessico nuovo, come se quello finora conosciuto non fosse sufficiente a dire l’intimità di vita che è data a colui che partecipa della fede di Gesù: costui è “battezzato in Cristo”, cioè “sepolto con lui”, “intimamente unito a lui nella morte” come pegno dell’esserlo anche nella resurrezione (cfr. Rm 6,4.5). Una tale ampiezza di orizzonte di vita possibile, una tale profonda intimità con il Mistero è incomparabile rispetto a quella dischiusa dalla Legge giudaica! Essa, ribadisce Paolo, è buona (Rm 7,16), ma incapace di condurci a salvezza: è questo il dramma espresso da quel “soggetto” a cui è data voce in Rm 7, che altro non fa che esprimere l’assoluta incomparabilità tra la condizione ancora drammatica in cui lascia la Legge e quella di liberazione, di salvezza che invece è data in Cristo, in virtù del Suo Spirito in noi. Legge giudaica e partecipazione alla vita del Figlio per lo Spirito, che ci è dato gratuitamente nel battesimo, nell’immersione nella sua vita per la fede, sono due “principi” assolutamente disomogenei: la prima è solo mediazione strumentale, inefficace in ordine alla salvezza, la relazione personale dischiusa da Gesù spalanca invece una vita e una salvezza inedita! È quanto Paolo prosegue a descrivere nel bellissimo capitolo di Rm 8, che si conclude con un inno magnifico all’amore di Dio manifestato in Cristo, che ci garantisce che «Dio è per noi», a totale nostro favore, “tenacemente schierato” a garantirci Vita!
Con questo punto di approdo di così grande consolazione siamo incoraggiati anche a sostenere la “gravosità” delle articolate argomentazioni paoline, a volte non così immediatamente comprensibili!
… e allora, coraggio! … e buona lettura!

sr Anna Borghi