Lettura Nuovo Testamento – 29

«Per me, infatti, il vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Fil 1,21)

Carissimi,

in questi giorni abbiamo ascoltato/letto la Lettera ai Filippesi e la Lettera ai Colossesi. Sono due lettere che fanno parte di quel complesso di cinque scritti che viene denominato “Lettera dalla prigionia” (oltre a Fil e Col, Filemone, Efesini e Seconda Lettera a Timoteo).

Secondo il racconto degli Atti Paolo sarebbe stato incarcerato per una sola notte a Filippi (cfr. At 16,23-40, durante il secondo viaggio missionario) e in Palestina, prima a Gerusalemme (cfr. At 21,33-34) e successivamente a Cesarea Marittima (cfr. At 23,33-35; 24,1-23). Secondo la cronologia tradizionale, la prigionia dell’apostolo a Cesarea si sarebbe protratta per circa due anni, dal 58 al 60 d.C. (cfr. At 24,27; 25,4), per poi essere trasferito a Roma (quarto viaggio), dove avrebbe trascorso altri due anni in una sorta di “libertà vigilata” in attesa del processo, quindi, dal 61 al 63 d.C. (cfr. At 28,16.30-31). Molti studiosi ritengono che le “Lettere dalla prigionia” debbano collocarsi nel periodo finale della vita di Paolo prigioniero a Roma. In realtà, la questione è molto discussa (altri studiosi sostengono che siano state scritte a Efeso), anche perché le lettere non offrono indizi utili per una datazione dei fatti che non sia opinabile. Quello che a noi interessa è il significato che Paolo attribuisce alle sue carcerazioni e il progresso spirituale e apostolico che queste esperienze hanno favorito nel suo cammino di fede e di testimonianza. Così scriveva ai Corinzi: «Sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte» (2Cor 11,23). Questo contesto ci consente di capire, apprezzare, gustare ed entrare nella bellezza e nella profondità delle nostre due lettere.

La Lettera ai Filippesi si rivolge alla comunità che viveva in Filippi, un’antica città (fondata nel VII sec. a.C.) conquistata da re Filippo II di Macedonia nel 355 a.C. come avamposto contro i Traci e poi costituita colonia romana nel I sec. a.C. Paolo, arrivato a Filippi nel 50 d.C., aveva fondato una comunità grazie all’adesione alla sua predicazione di alcune donne molto facoltose come Lidia (cfr. At 16,11-15), che offrirono all’apostolo ospitalità, in modo che egli potesse fermarsi per annunciare il Vangelo. L’occasione della lettera, stando alla tonalità e al contenuto, nasce dall’aver saputo che fra i membri della comunità di Filippi, erano sorti dei malcontenti che minavano l’unità interna, indebolendo la capacità di resistenza agli attacchi che la comunità subiva dall’esterno. Il desiderio dell’apostolo è di riportare i fratelli all’essenzialità della fede fondata in Cristo. Per raggiungere questo intento offre due paradigmi: l’itinerario di Cristo (cfr. Fil 2,6-11, il famoso “inno cristologico) e il suo (cfr. Fil 3,3-4,1). Esorta così all’unità interna, mostrando l’esempio di Cristo e di sé stesso. Seguendo la struttura della lettera, dopo il saluto iniziale (1,1-2) e il ringraziamento a Dio e ai Filippesi (1,3-8), presenta un’accorata preghiera (1,9-11), offre un’interpretazione evangelica della sua prigionia a causa del Vangelo annunciato (1,12-26) e invita la comunità all’unità e alla resistenza compatta contro i nemici della croce (Fil 1,27-28). Fornisce, poi, una nuova esortazione all’unità che è possibile nella condivisione dello stesso sentire di Cristo (2,1-5) e presenta questo modo di sentire e di essere attraverso il percorso di svuotamento totale di Cristo fino alla sua esaltazione (2,6-11). C’è poi una ripresa dell’esortazione (2,12-18) e l’annuncio dell’arrivo di Epafrodito e di Timoteo (2,19-30). Il terzo capitolo si apre con un nuovo invito a resistere ai nemici della croce (3,1-2) e presenta sé stesso come esempio, che per Cristo ha considerato spazzatura tutto ciò che, a ragione, poteva essere un vanto (3,3-4,1). Il resto della lettera si svolge mediante esortazioni ad personam (4,2) e comunitarie (4,3-9). La lettera si conclude con un riconoscimento della collaborazione dei Filippesi alle esigenze apostoliche di Paolo, con l’invito a vivere in questo nuovo sentire (4,10-20) e i saluti finali (4,21-23). In Fil 1,12-13 Paolo dice: «Desidero che sappiate, fratelli, come le mie vicende si siano volte piuttosto per il progresso del Vangelo, al punto che, in tutto il palazzo del pretorio e dovunque, si sa che io sono prigioniero per Cristo». Nella situazione di prigionia, che impedisce all’Apostolo di svolgere la sua attività missionaria, Paolo scopre che, al contrario, “le catene” non sono un intralcio, ma un’occasione privilegiata di evangelizzazione («per il progresso del Vangelo»). Viene esaltato il paradosso del Vangelo del Cristo Crocifisso e Risorto: Paolo diventa testimone della contraddizione causata dalla Parola della Croce. E insieme «la maggior parte dei fratelli del Signore, incoraggiati dalle mie catene, ancor più ardiscono annunciare senza timore la Parola […] Purché in ogni maniera, per convenienza o per sincerità, Cristo venga annunciato, io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene» (Fil 1,14.18). A causa del carcere, la sua missione ha seminato persino nel palazzo del pretorio e la sua assimilazione a Cristo ha ricevuto un’accelerazione. Qualunque sia l’esito di liberazione o di condanna a morte Paolo sarà salvo e Cristo glorificato. Le catene diventano una prova della predilezione di Cristo, tutto ormai gli parla di Cristo e lo rimanda a Lui: «per me, infatti, il vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Fil 1,21). Probabilmente, la Comunità di Filippi era amareggiata, spaventata, delusa dalla prigionia dell’Apostolo e vedeva nelle sue catene la fine e il fallimento della missione cristiana da lui iniziata e da loro sostenuta. Con la sua lettera Paolo rassicura, incoraggia e spinge all’azione apostolica i Filippesi, mostrando come il carcere sia per lui, per loro e per il Vangelo una delle più grandi occasioni di annuncio cristologico.

Anche nella parte finale della Lettera ai Colossesi Paolo presenta la sua incarcerazione come una privilegiata occasione per la testimonianza del mistero cristiano: «Pregate anche per noi, perché Dio ci apra la porta della Parola per annunciare il mistero di Cristo. Per questo mi trovo in prigione, affinché possa farlo conoscere, parlandone come devo» (Col 4,3-4). Probabilmente, l’occasione della lettera fu la diffusione di una serie di pratiche gnostiche e misteriche che, attingendo da filosofie diverse tra loro, avevano inficiato la fede cristiana nella comunità di Colossi (cfr. Col 2,8.16.18.21). La lettera le mette in evidenza come pericolose per la fede in Cristo e ripropone il cuore del Vangelo annunciato, utilizzando un linguaggio inedito. I destinatari della lettera erano i cristiani della chiesa di Colossi, nella valle del fiume Lycos in Frigia, nella provincia d’Asia. Una Comunità non evangelizzata da Paolo, ma da Epafra, il quale aveva informato Paolo del loro progresso e delle loro difficoltà (cfr. Col 1,3-8). Dopo l’indirizzo iniziale (Col 1,1-2), l’Apostolo ringrazia Dio mostrando di conoscere la situazione della comunità (1,3-20) e descrive ciò su cui intende argomentare (1,21-23). Comincia così la sua argomentazione, proponendo alla comunità di Colossi l’itinerario cristiano. A partire dalla riscoperta del Vangelo annunciato da Paolo tra molti combattimenti (1,24-2,5), l’Apostolo invita la comunità a radicarsi nella fedeltà a questo Vangelo, che vede il primato di Cristo nell’opera della salvezza (2,6-23). La conseguenza della riscoperta e della nuova adesione al Vangelo implica una santità di vita che trae le mosse da ciò che la risurrezione di Cristo ha operato in noi (3,1-4,1). La lettera si conclude con delle esortazioni che riprendono il cuore dell’argomento trattato (4,2-6) e con lo schema classico dei saluti (4,7-18). Proprio nel commiato Paolo conclude con un’espressione che ha il valore di un’epigrafe: «Ricordatevi delle mie catene» (4,18). L’Apostolo invita i Colossesi a ricordarlo come se “fosse una cosa sola con le sue catene”. Sembra quasi un’icona della sua conformazione a Cristo. Un’immagine persuasiva con la quale al termine dello scritto vuole incoraggiare la Comunità a perseverare nel cammino cristiano, senza farsi manipolare da false dottrine. È l’immagine del “paradosso cristiano”: non solo “nonostante le catene”, ma, ancor di più, “grazie alle catene” Cristo è annunciato e glorificato.

Buon cammino,

don Davide Bertocchi