Lettura Nuovo Testamento – 11

Cari tutti,

siamo arrivati al capitolo 17 del Vangelo di Luca. Da Lc 9,51 siamo in cammino con Gesù alla volta di Gerusalemme, dove il Maestro già intuisce dover avvenire qualcosa di doloroso e oscuro, ma come il grembo di qualcosa di straordinario.
Nel suo racconto, Luca ci ha accompagnato, tra le altre cose, a varcare la soglia di un certo numero di racconti elaborati da Gesù.
Grazie agli evangelisti ci sono giunte poco più di una trentina di parabole di Gesù. Possiamo essere ragionevolmente certi del fatto che ne avesse raccontate anche altre, che sono andate perdute. Il che ci dice che il racconto era una strategia comunicativa che sentiva a sé congeniale: Gesù raccontava volentieri, gli piaceva inventare e narrare storie. Lo trovava un buon modo per accompagnare le persone dentro il mistero del Dio vivente.
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Anni fa ho letto, in un romanzo, una pagina che mi ha acceso a una comprensione più profonda del motivo per cui Gesù raccontasse storie. La condivido con voi:
«Il bradipo tridattilo ha un’idea piuttosto vaga del mondo che lo circonda. […] Se vi imbattete in un bradipo tridattilo che dorme nella foresta, due o tre spinte leggere basteranno a svegliarlo; ma non appena sveglio guarderà in tutte le direzioni eccetto la vostra. Perché si guardi intorno è di per sé un mistero, considerato che la sua vista è paragonabile a quella di Mister Magoo. Quanto all’udito, il problema non è la sordità del bradipo, ma la sua indifferenza ai suoni. [L’etologo] Beebe riferisce che un colpo di arma da fuoco non gli provoca particolari reazioni se sta dormendo o mangiando. Anche l’olfatto, leggermente più sviluppato degli altri sensi, non va sopravvalutato. Teoricamente i bradipi sono in grado di fiutare i rami marcescenti, ma Bullock (1968) nota che “non di rado” essi precipitano a terra per essersi aggrappati al ramo sbagliato» (Y. Martel, Vita di Pi, Casale Monferrato 2018, 14).
Perché Gesù racconta storie? Perché i suoi ascoltatori escano dalla condizione di bradipi tridattili, insensibili agli stimoli del mondo e perduti nelle nebbie della propria opacità. A chi gli chiede perché insista a parlare alla gente attraverso racconti spesso un po’ ermetici, il maestro risponde che li vuole svegliare (cfr. Mt 13,10-13). Destarli alla vita, far percepire alle persone la ricchezza che freme nelle cose.
Gesù intende i suoi racconti come una terapia. Le immagini e le vicende che propone sono impastate della stessa materia delle guarigioni di ciechi e sordi: se entri nel mio racconto – dice Gesù – e ci cammini un po’ dentro, poi vedrai meglio quel che vivi ogni giorno, ascolterai davvero il linguaggio che ti sfugge, gusterai con più meraviglia e gratitudine quel che spesso tratti con sufficienza. Passeggia spesso nelle mie parabole e diverrai un po’ per volta l’avventuroso esploratore dell’opera di Dio.
Quella nebbia che ci toglie la gioia delle cose è la grande nemica con cui lottano i poeti, i profeti e i narratori: «Una nube pesava sulla nebbia degli uomini, ma alcuni giganti lavoravano in quella nube per alzarla dal mondo» (G.K. Chesterton, L’uomo che fu giovedì, Milano 1975, 11-12).
Di che cosa è fatta questa nebbia? Il “gigante” Gesù, impegnato a sollevarla, con che cosa ha a che fare? Da che cosa ci vuole guarire?
L’evangelista Luca ce lo ha detto, ad esempio, all’inizio del capitolo 15: «Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: Costui riceve i peccatori e mangia con loro!» (Lc 15,1-2).
L’evangelista sta per lanciarsi in uno dei capitoli più conosciuti del suo lungo scritto (Luca e Atti): l’ascoltatore che lo segue è sulla soglia di tre parabole tra le più note (la pecorella smarrita, la dracma perduta, il padre misericordioso). E Luca sottolinea che Gesù elabora i suoi racconti in risposta a una sollecitazione: i farisei e gli scribi mormorano. Bofonchiano, protestano sottovoce in circolini scandalizzati. Non chiedono il suo confronto, a quanto pare. È Gesù, allora, a prendere l’iniziativa: attacca a raccontare storie.
Quel che cerca di fare è di rendersi comprensibile a chi non lo capisce. «Siete scandalizzati perché sto volentieri con queste persone?». «Sì – gli direbbero – gli antichi ci dicono che per onorare Dio bisogna star lontano da gente come questa. Le tue frequentazioni rivelano la dubbia qualità della tua persona. Il profeta e il saggio sono un’altra cosa».
E Gesù comincia: «Ditemi, quando un pastore si accorge che gli manca una pecora, cosa fa? La va a cercare, vero? Lo capite bene, è l’unica cosa sensata. Se non la ritrova dovrà ripagarne il prezzo al padrone [spesso i pastori pascolavano pecore per conto di altri]. L’impegno del pastore vi è del tutto comprensibile. Allora son qui a chiedervi: che cosa vi impedisce di applicare lo stesso sguardo sulla vicenda reale che avete davanti agli occhi, qui e ora? La gioia di cui esulta il pastore, una volta che ha ritrovato la pecora che gli era stata affidata, la capite bene. Come mai non capite la gioia che provo io a stare con pubblicani e peccatori? Guardando a questa gente, voi vedete lupi pericolosi o bestie immonde da tener lontane. Io vedo pecore che si erano perse lontano dal sentiero, e che sono venuto a riportare all’ovile. La gioia che vivo nello stare con loro è della stessa natura di quella del pastore, che ha avuto successo nella sua ricerca: capite la sua, allora che cosa vi impedisce di comprendere anche la mia?».
Quella che Gesù predispone è una strategia di spostamento dell’uditore.
«Come funziona? La parabola, la storia inventata, crea una distanza, introduce l’uditore in un altrove narrativo, e là costruisce con lui un accordo» (Y. Redalié, I Vangeli. Variazioni lungo il racconto, Torino 2011, 115-116).
Gesù pone domande, esplicite o implicite, a cui gli ascoltatori sono sollecitati a dar risposta. Nella parabola della pecorella smarrita, ad esempio, è implicita: cosa farà il pastore quando avrà ritrovato la pecora? Sarà felice o triste? Felice, certo: tanto è vero che chiamerà gli amici a festeggiare con lui. Siete d’accordo con me?
«La parabola è un linguaggio della novità, in quanto permette lo spostamento dell’uditore» (ibid.) dalla realtà che gli è attuale al mondo del racconto. Questo spostamento favorisce un cambiamento di sguardo. «Questo cambiamento non è costretto. Più che di appelli e di esigenze, si tratta di un linguaggio di sorpresa e di spostamento. La parabola racconta, liberando l’uditore da se stesso […] La parabola non è tanto un discorso rivolto alla volontà dell’uomo, quanto la guarigione di uno sguardo impedito che, vedendo le cose, e prima di tutto la relazione con Dio, in modo totalmente diverso, non può più comprendersi e agire come prima» (ibid.).
Che cosa ci rende ottusi come il bradipo tridattilo? Anzitutto uno sguardo ripiegato, insensibile alla vibrazione della gioia per aver ritrovato chi era andato perso. Gesù racconta la parabola per aiutare scribi e farisei moralmente miopi a rendersi conto della loro condizione di cecuzienti spirituali. Se ne lasceranno aiutare? Accoglieranno in profondità il racconto di Gesù, ci penseranno su nei giorni successivi? Che peccato se non cogliessero l’occasione. Sarebbero come una strada indurita, in cui il buon seme non è proprio riuscito a penetrare.
Qualcosa di simile nella parabola del ricco epulone (cfr. Lc 16,19-30). Un uomo ricco e gaudente trascura il povero Lazzaro alla sua porta, manco si avvede della sua presenza, apprezzata solo dai cani di casa, che possono leccargli le piaghe. I due muoiono: Lazzaro si ritrova nell’abbraccio di Abramo, il ricco (“epulone” deriva dal latino: vale “amante dei banchetti”, come se la sua identità fosse nient’altro che il cibo di cui s’ingozza) giù giù agli inferi. Le fiamme lo torturano, lui chiede un goccio d’acqua al patriarca lassù in cielo, ma non c’è via per soddisfarlo. Al centro del racconto c’è lo sguardo: il ricco non l’ha proprio visto, quello straccio umano ripiegato alla sua porta. La parabola non indugia sulla presunta malvagità del festaiolo: non pare una persona malvagia, solo molto cieca alla triste condizione del povero. Come pure sordo alle parole della Legge di Mosè: se uno non ascolta Mosè, se uno non vede il senso profondo della sua Legge – prendersi cura del Dio del cielo nel proprio fratello lì per terra – non c’è modo di aprirgli gli occhi, manco gli risuscitasse un morto lì davanti.
Gesù racconta perché chi lo ascolta apra gli occhi: sul bisogno di chi ha bisogno e sulle esigenze della Legge di Mosè. Se vivi nella cecità, cieco sarà il carcere eterno in cui ti sarai rinchiuso.
È molto curiosa la dinamica del racconto: è l’unica occasione in cui, in una parabola, troviamo una trama così fitta di botta-e-risposta tra i personaggi. Il ricco espone tre volte le sue richieste, Abramo ribatte colpo su colpo le sue ragioni, chi la spunterà? L’ultima parola è per il patriarca, naturalmente – che esprime la posizione di Dio stesso. L’ascoltatore segue il dibattito serrato, comprende di volta in volta le richieste dell’uno e le ragioni dell’altro, ed esce dal racconto con una consapevolezza più matura: mi è stato dato tutto quello di cui ho bisogno per potermi decidere per Dio e le sue opere; se qualcosa mi manca è la decisione a darmi da fare. E il primo modo per darmi da fare è ritornare su questo racconto, che il Maestro mi ha consegnato: cosa sta cercando di dirmi? C’è forse qualche Lazzaro che non vedo, a due passi dal mio fiato?
Gesù racconta, dunque, anzitutto per sanare lo sguardo di chi ascolta, che vede spesso miope, incapace di riconoscere quel che c’è in gioco: ad esempio, il fremito di gioia del Padre per i peccatori che si scoprono amati, e la responsabilità di aprirsi alla parola di Mosè e alla presenza del fratello in sofferenza.
don Paolo Alliata