Lettura Nuovo Testamento – 36 bis

“Introduzione alla letteratura giovannea”

Benché sparsi all’interno del Nuovo Testamento, alcuni libri fanno riferimento alla testimonianza del Discepolo Amato [d’ora in poi DA]. Per questo motivo, la tradizione ce li consegna come gli scritti «di Giovanni». Diversamente dalla Tradizione Sinottica e da quella Paolina, qui si trova una sorta di “menu completo”: un vangelo (il quarto), tre componimenti epistolari (che per comodità accomuniamo sotto il nome comune di “lettere”) e l’Apocalisse (unica nel suo genere).

Una tale varietà offre uno scorcio di vita di una Comunità cristiana delle origini, probabilmente collocata nella provincia romana di Siria, oppure di Asia (Efeso e dintorni). Alcuni indizi presenti nei testi portano a ipotizzare che questa Comunità non vivesse tutta compatta in un unico luogo, ma che fosse sparpagliata in piccole realtà domestiche “in rete”, tra la città e la sua hinterland. Non mancano poi accenni a problemi e fatiche interne ed esterne alla comunità stessa: piccole e grandi persecuzioni dal mondo giudaico e da quello imperiale, spaccature sulla fede in Gesù e su chi fosse responsabile autorevole nella vita comunitaria… Insomma, una descrizione realistica e tutt’altro che irenica!

Tuttavia, la presenza di difficoltà non impedisce a questa comunità di essere vivace. Anzi, queste stesse circostanze alimentano ulteriormente la sua riflessione sulla fede e sulla testimonianza nel mondo. Infatti, l’intento che guida questi scritti non è la fissazione di un contenuto intoccabile, bensì l’attualizzazione di una verità che alimenta e orienta la vita singola e comunitaria dei credenti. Se da un lato si intende difendere la testimonianza originaria del DA da ogni sospetto invalidante (cfr. ad es. Gv 19,35; 21,24), dall’altro lato si mira a mantenerla concretamente attuale ed efficace: «Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (1Gv 1,3). Di epoca in epoca, nuove sfide e nuovi lettori chiedono che quanto è stato consegnato dall’Apostolo giovanneo nutra e sostenga la fede: così l’esperienza e l’insegnamento di Gesù vengono costantemente ripresi, reinterpretati ed esplorati in nuove direzioni, perché parlino ancora.

Il vangelo, innanzitutto, può essere letto come «una Scrittura in movimento, una Scrittura aperta, una Scrittura abitata dalla ricerca di senso» (J. Zumstein, L’apprentissage de la foi, Labor et fides, Genève 2015, 33). La natura dinamica di questa narrazione dischiude molteplici piste di lettura.

Tra le tante, è intrigante quella sensoriale e in particolare quella tra vedere e udire: la storia dei discepoli comincia con un «venite e vedrete» (Gv 1,39), per terminare con un «beato chi pur non avendo visto crederà» (Gv 20,29). D’altro canto, che il credere passi per uno spostamento dalla vista all’udito, è rintracciabile in più episodi: il cieco guarito riconosce Gesù non per la vista acquistata, ma per averlo ascoltato parlare («Gli disse Gesù: “Lo hai visto: è colui che parla con te”. Ed egli disse: “Credo, Signore!”» – Gv 9,37-38); Maria di Magdala rimane con lo sguardo fisso sul vuoto del sepolcro – emblema di un’attesa caparbia a una risposta indisponibile – e poi però si volta e crede, appena sente chiamare il suo nome (Gv 20,11-18). Ma si pensi anche alla metafora del “buon pastore”: non è certo per la vista di lui che le pecore lo seguono, ma è «perché conoscono la sua voce» (Gv 10,4)!

Una seconda pista di lettura unisce la venuta di Gesù nel mondo e l’accoglienza/riconoscimento di lui come l’Inviato del Padre. Come luce che viene nelle tenebre egli si è fatto carne nella storia, abitando e operando in mezzo agli uomini (cfr. ad es. Gv 1,5-13) ed esponendosi a un riconoscimento (accoglienza) o a un rifiuto (non accoglienza). Lo scopo del suo venire è la manifestazione della gloria del Padre, che coincide con la salvezza dell’umanità. Perciò, laddove c’è il rifiuto non è accolta nemmeno la salvezza. Così avviene il giudizio: non una sentenza piovuta dall’alto, ma il sottrarsi a un dono offerto. A questo proposito, è particolarmente utile prestare attenzione al modo in cui viene raccontato l’incontro di Gesù da parte dei vari personaggi: attraverso segni, gesti, dettagli e dialoghi, il narratore descrive dei veri e propri itinerari di fede che, partendo da circostanze umane differenti, illustrano i passaggi che progressivamente portano a riconoscere e accogliere l’Inviato del Padre (ad es.: Nicodemo, la Samaritana, Marta e Maria, ecc.).

Terza pista di lettura è quella della memoria credente. Nel Quarto Vangelo, spesso Gesù offre qualcosa che non può essere immediatamente compreso nella sua totalità. Solo dopo Pasqua i discepoli possono capire come Gesù avrebbe fatto risorgere il tempio in tre giorni, eppure lui lo dice già nel secondo capitolo (Gv 2,19-22). Solo dopo un lungo percorso di testimonianza il cieco nato può vedere Gesù, pur avendo acquistato la vista già alla piscina di Siloe (Gv 9,7.37-38). E anche dopo la lavanda dei piedi, pronuncia ai suoi un lungo discorso, senza tuttavia pretendere che essi comprendere subito. C’è un tempo – il “piccolo tempo” dell’«un poco e non mi vedrete più; un poco ancora e mi vedrete» (Gv 16,16) – in cui il discepolo vede, ascolta e vive senza capire tutto. C’è poi un tempo, quello successivo alla Pasqua, in cui il Paraclito «gli insegnerà ogni cosa» (Gv 14,26), facendo memoria di tutto ciò che Gesù ha detto e operato. Perciò, lo Spirito è “maestro di memoria”, che guida «a tutta la verità» (Gv 16,13) e sostiene la testimonianza dei discepoli nel tempo dopo la risurrezione (Gv 15,26-27).

Lo sfondo in cui leggere le Lettere di Giovanni è caratterizzato da tre particolari passaggi avvenuti all’interno della comunità giovannea: il primo è la conclusione della stesura del vangelo, che a un certo punto viene ritenuto non più modificabile; il secondo passaggio riguarda l’insorgere delle prime difficoltà interne alla comunità, che portano tensioni e persino divisioni; il terzo passaggio, infine, consiste in un’esigenza di approfondimento sempre maggiore della comunione «con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo» (1Gv 1,3) della consapevolezza di essere Chiesa (cfr. ad es.: 1Gv 3,23-24; 4,7-16.19-21; 2Gv 1-6; 3Gv 9-11). Da questi tre passaggi, si possono ricavare tre chiavi di lettura per questi scritti.

La conclusione della stesura del vangelo comporta il passaggio dalla forma del racconto a quella epistolare. C’è un diverso coinvolgimento di chi scrive e chi legge, fosse anche solo per il rapporto diretto tra «io/noi» e «voi» e per il fatto che, nella seconda e terza lettera, l’autore si presenta addirittura come il Presbitero che scrive alla Comunità, dapprima interpellata come la Signora eletta da Dio (2Gv 1) e poi attraverso la persona di Gaio (3Gv 1). Dalle righe di queste lettere, quindi, risuona l’invito a leggere sentendosi parte di una Comunità e non come semplici “lettori privati”. Per capire quanto è scritto, chi legge deve sentirsi inserito in una rete di relazioni e un vissuto condiviso reale – e quindi non ideale, anche se questo comporta qualche difficoltà o sofferenza – basato sulla fede in Gesù. In altre parole, il lettore trova in questi scritti non tanto come dovrebbe essere una ideale comunità cristiana, quanto piuttosto che cosa rende cristiana una comunità reale.

Il secondo passaggio riguarda le difficoltà interne alla comunità, che sono di due tipi: di fede (cristologiche) e di comportamento (etiche). Le due sono connesse, in quanto non si può vivere l’amore per il fratello senza una fede autentica in Gesù e nel Padre, e viceversa:

Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. […] Carissimi, se Dio ci ha amati così, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri. […] Se uno dice: «Io amo Dio» e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. (1Gv 4,8.11.20)

Significativo è il modo in cui queste lettere affrontano le tensioni della Comunità: non si limitano a condannare o a critiche sperticate, né a prese di distanze o a imposizioni verticistiche; piuttosto propongono con autorevole vigore lo stile del vigilare e del discernere. Sono questi i due atteggiamenti con cui la Comunità cresce e affronta i problemi. E sono queste le chiavi di lettura con cui leggere l’intera raccolta di questi tre scritti (1–3Gv).

Il terzo passaggio comporta l’approfondimento del credere e l’irrobustimento dell’essere Chiesa, ossia il risvolto positivo di quanto detto finora. Infatti, le Lettere stesse rappresentano un modo di vivere la Comunità secondo lo stile del vigilare e del discernere. E mostrando questo, ci attestano come sia cresciuta la consapevolezza credente ed ecclesiale, che potrebbe essere così sintetizzata: la vita concreta dell’umanità è il luogo rivelativo di Dio, tanto che Gesù si è fatto veramente e pienamente uomo; perciò, è anche importante il modo in cui una Comunità credente vive nel concreto, sia al proprio interno sia con quelli che non le appartengono. Così non c’è separazione tra ambito dottrinale e morale, poiché i due si illuminano reciprocamente tanto che l’uno ha senso soltanto se c’è l’altro. A tal proposito, è emblematico il modo con il Presbitero spiega alla Comunità il significato di «camminare nella verità», in merito al comportamento di alcuni che non seguono la «dottrina del Cristo» (2Gv 4-7):

Mi sono molto rallegrato di aver trovato alcuni tuoi figli che camminano nella verità, secondo il comandamento che abbiamo ricevuto dal Padre. E ora prego te, o Signora, non per darti un comandamento nuovo, ma quello che abbiamo avuto da principio: che ci amiamo gli uni gli altri. Questo è l’amore: camminare secondo i suoi comandamenti. Il comandamento che avete appreso da principio è questo: camminate nell’amore.

È perciò importante leggere queste Lettere riuscendo a cogliere come “dottrina” e “morale” s’intreccino, o meglio come si alimentino reciprocamente il cammino della fede e quello del vivere come Chiesa.

L’ultima opera giovannea è l’Apocalisse, spesso ritenuta e raffigurata come il libro che tratta delle cose che avverranno nell’ultimo futuro, alla fine dei tempi. In effetti, il suo linguaggio enigmatico e marcatamente simbolico, pieno di esseri strani e combattimenti cosmici si presta a una simile interpretazione. Tuttavia, lo scopo di questo scritto è ben diverso: non tanto proporre un immaginifico eschaton finale, quanto piuttosto fornire alcuni strumenti per interpretare con fede la storia, dal presente fino alla fine.

A fronte del persistere di conflitti interni ed esterni alla Comunità, Giovanni – così si firma l’autore – comincia scrivendo alle «sette Chiese che sono in Asia» (Ap 1,4), vale a dire alla Chiesa nella sua totalità (Ap 2,1–3,22). Il messaggio mira a esortare alla perseveranza nella testimonianza, senza compromessi accomodanti con il potere o con forme di vita e di pensiero facili e lusinghiere. Scorrendo le sette lettere, infatti, è facile notare come ricorrano spesso appelli alla coerenza e alla fedeltà, segnalando la presenza di defezioni a fronte delle persecuzioni, oppure di commistioni tra la vita cristiana e altre pratiche idolatriche e pagane.

La parte seguente dell’opera è costruita secondo dei settenari (Ap 4,1–22,5), ossia gruppi simbolici di sette, il cui ultimo elemento elencato contiene i successivi (l’ultimo sigillo contiene le sette trombe e l’ultima tromba contiene le sette coppe). Ciascuna di queste sequenze affronta sempre il medesimo messaggio – ossia la presenza e l’azione del Cristo Crocifisso e Risorto all’interno della storia – in modo tale che lo si approfondisca sempre di più: così, una volta che il lettore è giunto al culmine di un elenco, è condotto in una riflessione nuova ma analoga alla precedente, al fine di comprendere più a fondo quanto ha già letto (gli studiosi chiamano questo metodo letterario ricapitolazione). Nel complesso, questa parte invita a osservare la storia come la realtà in cui si sta realizzando la vittoria di Cristo, avvenuta con la sua morte e risurrezione. Perciò, persino le pagine più sanguinose e belliche dell’Apocalisse chiedono di essere interpretate come una descrizione di un’opera straordinaria in corso, in cui il Risorto sta rimettendo ordine nella creazione, riuscendo persino con grande impegno a dare un posto al male e alla morte.

Il libro non sceglie la via facile, ma rischiosamente magica, di far sparire il dolore e la violenza: proporrebbe soltanto la favola di un mondo fatato. Invece, la profezia del veggente propone una visione del mondo e della storia che assume anche dolore e violenza, entro la tensione verso «un cielo nuovo e una terra nuova» (Ap 21,1). Quella di cui si parla non è una storia incantata, ma una storia rinnovata! E al centro di questa storia c’è l’Agnello, il tempio e il cuore della vita della Chiesa e quindi del mondo. E questo rinnovamento in atto è ciò che aiuta i credenti a capire come vivere l’attesa: non come un sospiro di qualcosa che non c’è, ma come l’acclamazione orante di Colui che sta già venendo e che quindi è già verso di noi, anche se non ancora in pienezza. Così si può pregare: «Amen. Vieni, Signore Gesù!» (Ap 22,20).

 

Don Isacco Pagani

 

 

Bibliografia consigliata

Doglio C., La testimonianza del discepolo (= Graphé 9), Elledici, Torino 2018, pp. 358.

Zumstein J., L’apprentissage de la foi. A la découverte de l’évangile de Jean et de ses lecteurs (= Essais bibliques 50), Labor et fides, Genève 2015, pp. 110.